Specchio
della psiche e della civiltà
GIUSEPPE PERRELLA
NOTE E
NOTIZIE - Anno XVIII – 13 novembre 2021.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Ventiduesima
Parte)
44. Come e perché Firenze
ritorna alla ribalta mondiale nel Seicento. La figura di
Elisabetta I e le vicende che ho riferito del suo regno aiutano a comprendere ottica
e forma mentis dalle quali provenivano i protagonisti dell’epoca di
Harvey in Inghilterra, dove una religione totalmente sottomessa alla politica
lasciava poche alternative ai sovrani tra reprimere il dissenso a colpi di
condanne a morte con barbari scempi dei cadaveri a scopo esemplare, come aveva
fatto Elisabetta, e soccombere come Carlo I che, rifiutando da cristiano il massacro
dei nemici, fu giustiziato dal parlamento, diventando un santo martire della
Chiesa Anglicana.
Aiutano a capire le differenze tra
Inglesi e Italiani, fra i quali coloro che vivevano di convinzioni, più che di
convenienze, e di sostanza, anziché di forma, erano ancora in
maggioranza; e aiutano a rilevare due caratterizzazioni socioculturali
prevalenti nel Seicento in tutta la penisola: quella focalizzata sul valore dell’arte
e dell’ingegno umano proveniente da Firenze e poi diffusa a Roma, Milano,
Venezia, Padova e tante altre città, e quella proveniente da Napoli, dove
prevalevano dopo Caravaggio il fascino d’avventura dei pittori spadaccini come
Salvator Rosa e Micco Spadaro, e le esperienze di sintesi e integrazione
multiculturale negli innumerevoli palazzi signorili che, in altrettante corti
principesche, ospitavano stabilmente alti prelati e colti nobili tedeschi,
francesi, austriaci, spagnoli e di ogni altra provenienza mediterranea.
L’Inghilterra era diventata la maggiore
potenza navale atlantica sconfiggendo la flotta spagnola detta l’Armada Invencible[1]
e stava esportando in tutto il mondo la sua rivoluzione industriale, il suo
pensiero filosofico e il suo teatro, eppure dall’Italia aveva ancora da tanto
da imparare, e Firenze rimaneva una meta obbligata per tanti Inglesi, non più
solo per le bellezze d’arte rinascimentali, ma per nuovi primati stabiliti
dalla città di Dante.
Quello spirito allegro, giocoso, burlesco,
canzonatorio e gioviale, che San Filippo Neri aveva portato anche nel suo
oratorio penitenziale, era parte integrante dell’anima del popolo fiorentino, e
non meraviglia che chi ne possedesse in misura maggiore si dedicasse al teatro o
a giocare per spensierato divertimento al calcio in Piazza Santa Croce, come Giovanni
dei Bardi, che aveva anche messo a disposizione la propria abitazione in Via de’
Benci per le riunioni di quel gruppo di amici intelligenti, intraprendenti e
irriverenti – fra i quali vi era Vincenzio Galilei –
che prese il nome di Camerata dei Bardi e dettò gli stilemi del recitar
cantando o melodramma[2].
Può invece meravigliare che nel 1583 un’allegra
brigata di amici di Giovanni dei Bardi, con a capo Leonardo Salviati, per pura
celia dei modi solenni e paludati dell’Accademia fiorentina abbia fondato un’associazione
che era tutta una burla, dal nome allo stemma, dall’obbligo a intervenire con
discorsi giocosi al programma delle riunioni, eppure divenne la prima e la più prestigiosa
istituzione linguistica del mondo: l’Accademia della Crusca[3].
Si legge: “La Crusca fu, nelle apparenze,
burlesca; qualche cronista di tante vicende descrive gli armadi in forma di sacchi,
le sedie in forma di gerle, e il frullone e le pale accademiche. Chi crederebbe
che una volta i dotti accademici si divertissero perfino a giocare, in Piazza
Santa Croce, il giuoco del calcio?”[4].
Ancora oggi possiamo ammirare i cimeli delle prime riunioni, come le pale da
farina artisticamente dipinte al loro interno per parodiare gli stemmi della “nobiltà
accademica”: la pala-stemma di Leonardo Salviati che riproduce un porcospino, “molto
porco e poco spino”, che sotto un cielo blu si infarina il muso, reca in alto
la scritta “Grufolando” e in basso “Infarinato”, ossia il “nome da accademico”
di Salviati. Il gruppo dei fondatori teneva molto alla sua denominazione di “Brigata
dei Crusconi” e al tenore umoristico, ironico e satirico dei discorsi, detti “cruscate”
e talvolta francamente improntati alla parodia di membri dell’Accademia fiorentina.
Memorabili per il popolo dei quartieri di
San Lorenzo e San Giovanni le allegre e goliardiche cruscate pronunciate al
canto, dirimpettaio del Canto alla Paglia, che fa angolo tra la Via Borgo San Lorenzo
e la Piazza di San Giovanni, ossia del Duomo, nella Spezieria del Moro, che ancora
esiste come farmacia ed esibisce al suo interno una grande lapide di marmo con il
ricordo delle riunioni degli accademici irriverenti.
Ma fin da allora i membri dell’allegra brigata
erano animati da un’intenzione molto seria, che consisteva nell’occuparsi della
lingua italiana, nata come volgare in Firenze al tempo di Dante, Petrarca
e Boccaccio, per ritornare a quella purezza e ricchezza lessicale che si era andata
perdendo negli anni, anche per responsabilità dell’Accademia fiorentina, ormai
quasi del tutto assorbita da tematiche filosofiche e poco attenta ai fenomeni di
deriva, sostituzione, commistione ed equivoco prodotti nella lingua parlata
dalle influenze di parlanti altri idiomi di lingua madre e dall’uso superficiale
e imitativo del mezzo verbale di comunicazione che si faceva in molti contesti
della vita quotidiana. L’Inferigno della Crusca, al secolo Bastiano de’ Rossi,
illustrava il senso metonimico del nome “Crusca” precisando che si riferiva allo
scopo dell’associazione di lavorare come un buratto o vaglio che
separi ed elimini le impurità, e dunque dice che il nome si è dato “per l’abburattar
ch’ella fa, e cernere da essa crusca, la farina”[5].
L’intenzione di non ergersi a
inquisitori dei malparlanti e il non voler demonizzare i termini estranei e impropri
è resa sia dal modo giocoso e burlesco di porsi, sia dall’assumere come appellativo
proprio la cariosside del grano che si vuole scartare. Il sentimento che accomuna
i Crusconi non è l’odio per l’erroneo ma l’amore per la lingua: la sua purezza
restituisce il piacere evocativo di quella letteratura vissuta a Firenze come un
sogno realizzato. Senza mezzi termini, l’Accademia della Crusca si prefigge un’opera
di bellezza.
La scelta della forma goliardica voleva richiamare
l’uso fiorentino medievale del gioco arguto e divertente associato alla fatica
del conoscere, nato all’epoca in cui il fiorino d’oro era la moneta più forte d’Europa
e la cultura toscana e di tutto il Bel Paese costituiva modello ammirato e imitato.
Ma, nonostante l’apparenza divertita e spensierata, i Crusconi affrontano
e realizzano una straordinaria impresa, che richiederà ventidue anni di lavoro,
dal 1590 al 1612, e stabilirà per la prima volta il senso d’uso e il valore semantico
di tutti i lemmi di una lingua: il primo vocabolario della lingua italiana, pubblicato
come Vocabolario degli Accademici della Crusca[6],
che sarà anche il primo dizionario di una lingua moderna. Questo inedito lavoro
lessicografico fu condotto in un edificio[7]
che sorge in Via Pellicceria nei pressi di Piazza della Repubblica in Firenze e
precede di poco il largo del Palazzo di Parte Guelfa, ma le prime stampe dell’opera
furono realizzate a Venezia da Ludovico Avanzi, lo stesso editore del Dei
Miracoli di Giovanbattista Della Porta.
Maria de’ Medici, in quegli anni Reggente
di Francia ed ex-Regina consorte di Francia e Navarra, Fiorentina come il suo primo
ministro Concino dei Concini, promosse un’impresa lessicografica francese ad imitazione
dell’opera della Crusca[8];
in Germania, invece, l’influenza fu più diretta, perché l’iniziativa fu presa
dal Principe Lodovico di Anhalt, che aveva soggiornato e studiato a lungo a
Firenze diventando egli stesso un membro dell’Accademia della Crusca; in
Inghilterra, Tommaso Henshaw, pubblicando in latino un
dizionario etimologico della lingua inglese, auspicava che si seguisse l’esempio
italiano della Crusca[9],
cosa che poté avvenire solo dopo un recepimento meditato nel tempo di quella straordinaria
rielaborazione creativa, o secondo alcuni vera rifondazione della lingua inglese,
operata da William Shakespeare, quando l’autorevole linguista Samuel Johnson seguì
il metodo e il progetto dei Fiorentini.
In Spagna la pubblicazione del dizionario
della Crusca ebbe una notevole risonanza, ma una vera emulazione si ebbe solo
molto più tardi[10].
Anche se antecedente alla fondazione
dell’Accademia, non posso trascurare un fatto accaduto proprio nella Spezieria
del Moro o Spezieria del Saraceno, con una conseguenza rimasta nella memoria
storica, che provo a ricostruire dai documenti con l’aiuto di Foresto Niccolai,
archivista della Misericordia di Firenze, perché fornisce elementi
significativi per comprendere la differenza di sensibilità tra i Londinesi
elisabettiani e i Fiorentini di quegli stessi anni.
L’antica farmacia del Moro apparteneva a
quel tempo ad Anton Francesco Grazzini soprannominato “il Lasca”, farmacista
considerato il miglior poeta in Firenze, rinomato per la sua versatile estemporaneità
che gli consentiva con la stessa efficiente immediatezza di comporre versi e
cataplasmi, di declamare rime improvvisate per celebrare il fascino di una
madonna appena entrata in bottega e preparare una nuova tisana, dosando spezie
rare e aromi inusitati con diligente cura e solerte allegria. Grazzini era
stato fra i sodali fondatori dell’Accademia della Crusca e si era
quotidianamente adoperato per cancellare, con le burlesche mattane dei
Crusconi, il ricordo dell’imprevedibile e sciagurata conseguenza di una
scommessa tra due amici che si ritrovavano, vari anni prima, nella sua spezieria:
Giovan Maria Benintendi e Piero Orlandini.
Si era nei giorni del conclave per eleggere
il successore di Adriano VI e, poiché il cardinale Giulio de’ Medici era considerato
papabile, i Fiorentini erano tutti in trepida attesa e speranzosi di avere un
loro concittadino, come era già avvenuto con Leone X, sulla cattedra di Pietro.
Benintendi era ottimista e dichiarò che
era pronto a scommettere una somma ingente sull’elezione di Giulio de’ Medici.
Orlandini, forse per pessimismo, forse per aver saputo di candidati più forti e
considerati a Roma, scommise che non sarebbe stato eletto.
Giulio de’ Medici uscì dal Conclave come
Papa Clemente VII, col tripudio della città di Firenze e la personale soddisfazione
di Benintendi che, ritrovando l’amico alla spezieria, gli chiese la somma
vinta. Orlandini, nell’onorare il pagamento, commentò in modo spiritoso,
secondo lo spirito spassoso e talvolta irriverente di tutta la brigata.
Leggiamo le parole di Piero Orlandini e cosa accadde dopo: “Questi scherzando
rispose: «Voglio vedere se è canonicamente eletto». Tale risposta data in
pubblico, nella Spezieria del Saraceno sul Canto alla Paglia, fu ascoltata da
altre persone e interpretata come se l’Orlandini avesse tacitamente insinuato
che, non essendo nato legittimo, Giulio non poteva essere Papa. Dopo pochi
momenti gli Otto di Guardia seppero ciò che aveva detto l’Orlandini”[11].
Tra lo stupore dei presenti e dello stesso Benintendi, fu arrestato, tradotto al
Palazzo del Bargello e interrogato come un criminale[12].
Riprendiamo a leggere: “Uno solo dei Magistrati
degli Otto dimostrò coraggio: messer Antonio di Domenico
Bonzi, dottore in legge, il quale disse altamente: «Nell’espressione dell’Orlandini
non vi era delitto da meritare, non già la pena di morte, ma neppure il minimo
castigo» e dette il suo voto scoperto con la fava bianca, segno di completa
assoluzione.
Messer Benedetto Buondelmonti, uomo
nobile ma superbo, per ingraziarsi i Medici, aveva proposto la condanna a morte.
Il Cancelliere degli Otto, ser Filippo del Morello, uomo malvagio, raccolte le
fave disse sogghignando: «signori Otto, il partito di condanna a morte ha vinto
resultando sette nere – e rivolgendo la ghigna al Bonzi – pure sarìa bene, messer Antonio, che
fossero tutte nere». Il Bonzi irato al massimo, diede uno schiaffo al
Cancelliere, dichiarando di rinunziare nello stesso tempo alla carica. Fatto
ciò uscì per tornarsene a casa”[13].
Il povero Pietro Orlandini, condannato a
morte, fu torturato e poi decapitato nel Cortile del Bargello. La vicenda causò
orrore e dolore in tutta la città e il Benintendi era disperato, sentendosi in
colpa per aver causato con quella scommessa la morte dell’amico, e cercò con le
sue sostanze di sostenere la famiglia del defunto. Si legge in proposito: “I Fiorentini,
inorriditi, piansero la morte dell’Orlandini e il Benintendi, causa incosciente
del funesto incidente, si accorò talmente che ne morì presto e fu sepolto in
San Niccolò di Via Ricasoli. Nel testamento aveva ordinato di erigere una
cappella di fronte a quella degli Amidei facendo
obbligo al cappellano di celebrarvi Messe per l’anima sua e quella di Pietro
Orlandini”[14].
Antonio di Domenico Bonzi, l’unico ad
opporsi alla pena di morte per l’innocente e ad essersi dimesso per quella disumana
e gratuita ferocia, decise di recarsi dal Papa a denunciare tutto quanto era
accaduto. Giulio de’ Medici, a onore del suo nome da Papa, Clemente VII,
profondamente addolorato per la morte di un innocente, spiegò che non solo la
presunta insinuazione sulla sua illegittimità, ma nemmeno la più grave e
ingiusta delle offese potesse mai giustificare la violenza, come ha insegnato
il nostro Redentore che, preso dalle guardie del Sinedrio, quando Pietro trasse
la spada e tagliò l’orecchio a Malco, lui lo riattaccò con un miracolo,
condannando la violenza anche nel caso in cui si voleva proteggere il Figlio di
Dio.
Clemente VII espresse ufficialmente
biasimo per gli Otto di Firenze[15]
e volle che Antonio di Domenico Bonzi, del quale aveva apprezzato il senso di
giustizia e il coraggio, rimanesse in Vaticano; poi lo nominò Vescovo di
Terracina, lo incaricò del governatorato di Viterbo e, infine, lo fece
Commissario delle Marche.
Se si pensa alle centinaia di innocenti
condannati a morte da Elisabetta I, tra l’indifferenza dei londinesi che
continuavano a idolatrarla, e si confrontano con il cordoglio di una intera
città e la censura del Papa fiorentino da Roma per un singolo caso, si
comprende bene la differenza socio-antropologica, prima ancora che culturale,
tra le due realtà.
L’Accademia della Crusca è un buon
simbolo, in quest’epoca, di un’impresa culturale nata dalla passione, dalla
volontà, dalla creatività e dal desiderio di singoli, che si associano intorno
a delle idee condivise e profondono con entusiasmo tutte le proprie energie per
realizzare gli obiettivi comuni. Non è un ente nato per regio decreto, per
rappresentare con la sua formale esistenza l’affermazione di un
principio politico, o un’attività a fine di lucro che esiste solo se premiata
dalla convenienza economica, è la realizzazione di un desiderio
che nasce dal piacere culturale ed è nutrito di sostanza ideale.
L’Accademia della Crusca si rivelò la
più seria delle cose buffe ideate in Firenze, e il suo vocabolario attrasse interesse,
attenzione e curiosità in tutte le nazioni che ne ebbero notizia.
Eppure, dopo qualche decennio, la città
di Dante dona all’Europa, e poi al mondo intero, un’invenzione che supera la fama
del vocabolario, interessando in tutti i popoli anche gli illetterati, gli analfabeti,
i lavoratori all’aperto, gli agricoltori e i viaggiatori.
Presso il Monastero degli Angeli in Firenze,
col supporto del Granduca Ferdinando II de’ Medici, dal 1654 hanno inizio rilevazioni
termometriche e barometriche che fanno del complesso conventuale la prima stazione
meteorologica della storia comprovata da documenti.
Le registrazioni termometriche erano basate
sulla scala 50 dei gradi fiorentini ed erano effettuate come rilievi sperimentali,
con prove in orari del giorno diversi per un fine conoscitivo e non ancora secondo
uno standard orario per fornire un bollettino di previsione del tempo. Si impiegavano
due termometri, il boreale e l’australe, con il secondo esposto
al sole e, pertanto, ritenuto meno attendibile del primo nelle ore diurne. È
interessante notare che i rilievi non si effettuavano esclusivamente all’ombra e,
nel caso di esposizione alla luce solare diretta dei termometri, si specificava
nelle registrazioni se tale influenza diretta fosse forte o debole[16].
Era comune tra i fisici l’osservazione che
la bassa pressione atmosferica rilevata col barometro, nel tipo a mercurio costruito
da Evangelista Torricelli allievo di Galileo Galilei[17],
associata ad una significativa riduzione di temperatura, precedeva costantemente
un peggioramento delle condizioni meteorologiche, ma fino alla creazione della
stazione di studio e rilevazione presso il Monastero degli Angeli non era mai stato
realizzato un vero sistema per la previsione del tempo atmosferico.
Per volontà di Ferdinando II si creò una
vera e propria rete di stazioni meteorologiche in comunicazione tra loro, a
cominciare dalla Toscana, con la stazione di Vallombrosa, cui seguirono nel tempo
Pisa e Cutigliano, e proseguendo poi in Italia, con Bologna, Parma e Milano, e
infine approdando in Europa con Parigi, Innsbruck e Varsavia.
Da Firenze venivano dunque due approdi di
civiltà: il vocabolario per migliorare la conoscenza del principale mezzo di comunicazione
umana e le previsioni del tempo, impiegate soprattutto al fine di programmare
le attività umane evitando le difficoltà atmosferiche e per cercare di prevenire
danni, pericoli e distruzioni da alluvioni ed esondazioni.
Non è difficile oggi, percorrendo le strade
del centro di Firenze, provare a immaginare di essere nel Seicento, trascurando
con lo sguardo e scotomizzando intenzionalmente alla vista i non numerosi segni
architettonici e urbanistici delle epoche successive, fino alla nostra. Torri medievali
intatte con le pietre lavate dalla pioggia che sembrano come nuove e le opere
di Arnolfo di Cambio, dal Duomo al Palazzo Vecchio, accanto a palazzi rinascimentali
ed altri edifici del tempo di Galileo ci fanno comprendere una ragione della
forza culturale di questa città: conservare il passato, non come semplice
memoria ma quale eredità vissuta, e cercare il nuovo, non per un cambiamento fine
a sé stesso, ma solo in quanto realizza un valore di miglioramento, innovazione
o progresso.
Immergersi nelle immagini delle
architetture, muovendo i passi sul basolato antico, consente facilmente una
suggestione visiva di viaggio a ritroso nel tempo; è un po’ più difficile
ritrovare con l’immaginazione l’ambiente acustico e musicale di quell’epoca,
perché il patrimonio delle nostre memorie acustiche è ingombrato dal sentire
senza ascoltare ogni specie di musica, quale complemento di immagini di
propaganda e di ogni altro genere che raggiungono ogni giorno le nostre orecchie
e impegnano, attraverso la coclea e le vie acustiche, la nostra corteccia
cerebrale. La musica, con canto o senza, siamo abituati a considerarla un
prodotto artificiale compiuto, un ready made, spesso da ignorare in
blocco. Allora dobbiamo fare un piccolo sforzo in più per immaginare una realtà
in cui la musica è sempre ascoltata come timbrica sonora di un particolare
strumento e, più raramente, di più strumenti insieme, sempre da riconoscere,
così come riconosciamo la voce delle persone che ci sono familiari.
Si va per strada di buon mattino, come
diceva al suo valletto Cosimo II allievo e poi patrono di Galileo Galilei, non
solo per sentire il profumo del pane appena sfornato ma anche per udire la
musica che suonano i cuori allegri, gli abili virtuosi e gli eterni innamorati.
Così proviamo a suscitare, con la nostra immaginazione acustica, uno stato
della mente simile a quello di chi ode dalle finestre aperte il suono delle tiorbe
che, come lamentava il padre di Galileo, prevale ormai su quello dei liuti e delle
ghironde, così come sulla voce di tutti gli altri cordofoni intermedi tra gli strumenti
a corde da braccio e il clavicembalo, creati a Firenze, dove poi Bartolomeo
Cristofori da Padova realizzerà il fortepiano perfezionato in pianoforte,
e dove da sempre gli strumenti musicali in generale sono i grandi protagonisti
degli intrattenimenti familiari, dei balli e delle feste celebrative di popolo e
di corte.
Studiare uno strumento musicale era
parte irrinunciabile dell’educazione, così come studiare la musica lo era dell’istruzione.
I Fiorentini sapevano che i testi poetici non musicati costituivano un approdo
relativamente recente della letteratura e che, dalle epoche più remote, di cui
si ha notizia dai testi della Grecia arcaica e dalla tradizione ebraica del
canto dei salmi, il pensiero poetico era un melos, una melodia che si fa
parola. La musica è considerata una dimensione dello spirito indispensabile da
coltivare per non abbrutirsi, utile per conferire atmosfera alle proprie
giornate, per favorire l’espressione degli stati d’animo e dei sentimenti, e
soprattutto per conservare quell’odos interiore, ossia quello stato
attivo che è via e direzione, ritmo e melodia allo stesso
tempo, come una sequenza armonica che scandisce il tempo e trasmette un motivo.
E oggi sappiamo che può contribuire a prevenire la depressione.
Non meraviglia, perciò, che la musica
che proveniva dalla Camerata de’ Bardi, dalla Via dello Studio, dalle botteghe
dei liutai, come da logge e case private, era considerata ispirazione, nutrimento
e supporto di artisti e artigiani che avevano le botteghe lì dappresso. In
particolare, si ha notizia che nel Seicento i maestri della carta, gli
stampatori e i librai amavano lavorare con la colonna sonora dei musicisti
vicini, e non pochi sodalizi nascevano tra loro.
Da tutto il continente europeo e dalle
isole britanniche venivano in Firenze a imparare l’arte della stampa ma, poiché
i caratteri mobili per la stampa fatti con la lega di piombo, antimonio e
stagno erano stati inventati tra il 1453 e il 1455 da Johannes Gutenberg a
Mainz e ormai da oltre un secolo in tutti i paesi vi erano rinomate stamperie,
i Fiorentini così spiegavano scherzosamente l’afflusso di tanti allievi dall’estero:
“Vengono qui perché loro hanno le parole, ma non hanno la musica!”.
Gli Inglesi nel loro periodo di
italianizzazione copiavano pedissequamente opere, stili, tradizioni,
professioni e mestieri delle città del Bel Paese; celebre il modo in cui
importarono le spezierie fiorentine facendone le loro botteghe di farmacia o Chemist’s: copiarono tutto, dalla struttura dei
locali alla disposizione dei vasi nelle vetrine e, non sapendo che in quanto attività
di pubblica utilità erano contrassegnate dal simbolo del popolo fiorentino,
ossia una croce rossa, posero anche loro la croce rossa dei Fiorentini nelle
insegne, credendo che fosse un simbolo arbitrario usato per attrarre l’attenzione.
Anche nel caso delle stamperie si
verifica inizialmente un’imitazione pedissequa. La particolarità della scuola
fiorentina, che aveva un’ottima concorrente in quella veneziana, era dovuta a
due fattori raramente congiunti nelle altre realtà: il primo è la ripartizione
in singoli compiti, ciascuno svolto da uno specialista, il secondo è che i
maestri erano, prima che stampatori, valenti artisti figurativi. In realtà, coloro
che diedero origine alla tradizione, e in particolare Bernardo di Cenni[18],
con la sua stamperia fondata nel 1471, e i monaci domenicani del Convento di Santo
Jacopo a Ripoli, in Firenze in Via della Scala[19]
dal 1476, si avvalsero del tesoro di esperienze e conoscenze tramandato da
amanuensi, miniatori e frati artigiani che realizzavano i codici scritti e
illustrati a mano. Negli anni, gli stampatori divennero tipografi e andò definendosi
il profilo culturale, oltre che tecnico, del libraio.
I librai facevano parte dell’Arte dei
Medici e degli Speziali, che aveva dato inizio, con l’universalità degli studi
medici, allo Studio Fiorentino, responsabile della vigilanza su qualità e
competenza dei produttori di libri, secondo uno Statuto che dichiarava
sottoposte all’istituzione universitaria le quattro categorie in cui era
ripartita l’attività: scriptores, correptores, miniatores et ligatores
librorum[20].
Gli scriptores non erano gli autori,
ma coloro che copiavano i manoscritti, correptores erano gli addetti a
correggere gli errori materiali di copia, ma non abilitati a intervenire nel
merito del testo correggendo un errore dell’autore, miniatores erano
detti coloro che ornavano i libri con l’aggiunta di fregi e lettere capitali decorative,
utilizzando spesso gli stili dei miniatori di codici, e infine i ligatores
erano gli artigiani esperti di tecniche per legare insieme i fogli stampati,
raccogliendoli in un volume sfogliabile.
Le botteghe dei librai ebbero la loro Via
dei Librai, in quel tratto di strada che va da Via del Proconsolo a Via della Condotta,
così denominata dalle case dei della Tosa lì situate, dove risiedevano gli
ufficiali della Condotta, che assoldavano le fanterie e passavano in rassegna
le milizie della Repubblica Fiorentina.
I famosi Giunti, oggi noti per la casa
editrice e a quel tempo per aver stampato per primi i classici greci e latini,
e poi aver realizzato innumerevoli volumi dei maggiori autori toscani, avevano
la bottega presso la chiesa della Badia fiorentina, da sempre considerata un
gioiello di architettura. L’area intorno alla Badia è stata per qualche secolo
un punto di riferimento culturale e di aggregazione di studiosi, cultori delle
arti grafiche e bibliofili, e all’interno della chiesa si può visitare una
cappella dedicata a San Bernardo da Chiaravalle, protettore di stampatori, librai
e cartolai, ricordato da questi con una tradizionale celebrazione il 20 di
agosto.
Nella memoria storica di Firenze rimane
l’impresa di Vespasiano da Bisticci e i suoi quaranta copisti, che in soli due
anni realizzarono più di duecento volumi per Cosimo de’ Medici, costituendo il
primo nucleo della Biblioteca Medicea di Firenze, divenuta poi uno dei maggiori
archivi di conoscenza del mondo. Ma il merito maggiore il buon libraio lo ha
avuto narrando la vita degli uomini illustri del suo tempo, perché il suo
modello di biografia è stato seguito in tutta Europa.
Gli artisti fiorentini del libro acquistavano
fama attraverso la diffusione delle copie di opere rilevanti. È il caso di
Stefano della Bella autore dell’incisione dell’antiporta[21]
del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei (1632),
una vera opera d’arte che raffigura in vesti da antichi filosofi i tre protagonisti
del dialogo e gli dà fama in tutti i paesi in cui si diffonde il volume. Dopo
anni trascorsi a copiare le acqueforti di Jacques Callot col supporto del suo
mecenate Don Lorenzo de’ Medici, figlio del Granduca Ferdinando I, anche grazie
a incisioni come quella dell’antiporta del dialogo, Stefano della Bella raggiunse
una tale fama da meritare di essere ritratto da Carlo Dolci, il massimo pittore
fiorentino del Seicento. Gli incisori ed editori di stampe Henriet
e Langlois lo indussero a trasferirsi a Parigi, dove
finì per sostituire Callot morto da qualche anno, ed ebbe modo di farsi
apprezzare dal Cardinale Richelieu, le cui commissioni gli valsero successo
mondano e celebrità europea.
Intanto, nel 1635 era nata a Firenze l’Accademia
degli Apatisti fondata presso lo Studio Fiorentino da due vivaci e intraprendenti
innovatori: Agostino Coltellini, un giovane e dinamicissimo letterato fiorentino,
studioso di diritto, consulente dell’Inquisizione e membro allo stesso tempo dell’Accademia
della Crusca e dell’Accademia Fiorentina; e Fracastoro, al secolo Benedetto
Fioretti da Mercatale, un poeta, critico letterario, filosofo e oggi diremmo
linguista, perché era grammatico e filologo, noto come critico acerrimo di
Ludovico Ariosto e oppositore di varie tesi di Aristotele.
Benedetto Fioretti riassumeva in sé ed esprimeva nel
modo più spontaneo e naturale i più stridenti contrasti dell’autentico spirito
fiorentino, accostando la passione burlesca e giocosa all’ostinato rigore negli
studi teologici e nella cura spirituale, al punto che qualcuno lo indicava
quale reincarnazione del Piovano Arlotto. Divenuto sacerdote a ventidue anni,
era considerato precoce per saggezza e profondità di fede ma, sottraendo tempo
alla cura delle anime, si divertiva a castigare con beffe canzonatorie i difetti
dei potenti, come il conte di Vernio Giovanni de’ Bardi, il quale lo fece redarguire
e richiamare a una vita più sobria e consona alla veste che indossava. Per
tutta risposta, Fioretti scrisse una satira sul Bardi che fece sbellicare dalle
risa tutti coloro che la lessero, inducendo il conte a denunciarlo e a
richiedere l’arresto per oltraggio.
Ma il prete aveva preparato una burla ai suoi
aguzzini, così che quando giunsero in armi per arrestarlo, trovarono l’uscio
aperto, la casa vuota e un’iscrizione in latino, tratta dal Vangelo di Luca: Resurrexit, non est hic (È resuscitato, non è
qui).
In un certo senso, quella frase aveva attinenza con
la realtà, perché tornato a Firenze era rinato a nuova vita, virtuosa in ogni
suo aspetto, cambiandosi anche il nome in Udeno Nisieli, che vuol dire “di nessuno, ad eccezione di Dio”.
Con Agostino Coltellini condivideva lo spirito dell’assoluta
imparzialità di giudizio, senza subire l’influenza di passioni di parte, senza,
appunto, patirne: a-pathos, da buoni “apatisti”.
45. Perché Galileo provoca l’ira di Urbano VIII
causando l’epilogo della sua vicenda scientifica. Abbiamo lasciato Galileo Galilei
intento a scrivere il suo Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e
copernicano[22], sereno
nello spirito perché non si sente più perseguitato e fiducioso perché incoraggiato
dallo stesso Papa Barberini Urbano VIII, suo estimatore fin dai tempi dell’esperimento
acquatico in Palazzo Pitti cui aveva assistito. Da quando il pontefice lo
convoca per complimentarsi dei contenuti del Saggiatore e, allo stesso tempo,
esporgli un suo punto di vista sul rapporto tra intelletto umano e realtà dell’Universo,
ossia l’aprile del 1624, fino alla pubblicazione del Dialogo trascorrono
otto anni[23],
durante i quali Galileo ha tutto il tempo per realizzare un’ottima costruzione
letteraria, attraverso i tre personaggi di Salviati, Sagredo
e Simplicio[24], che
interpretano rispettivamente le tesi contrapposte e l’opinione dei semplici, ma
ha anche l’opportunità di sperimentare un allentamento della tensione nella
vita quotidiana e una riduzione del controllo vigile e preoccupato sulle
proprie opinioni.
In quegli anni assiste alla laurea del figlio Vincenzio, poi al suo matrimonio, e dedica molto tempo ai
rapporti con la figlia di Marina Gamba, Suor Maria Celeste, che nutre sempre un
grande affetto per lui e gli manifesta spesso il desiderio di averlo più vicino,
ad Arcetri, dove è il suo convento. Proprio per esaudire questo desiderio della
religiosa, di cui era stato patrigno e tutore, prende in affitto la villa “Il
Gioiello” in Via del Pian dei Giullari ad Arcetri[25],
dove rimarrà poi fino alla morte.
La pubblicazione del Dialogo, secondo molte
fonti già pronto agli inizi del 1630[26],
richiede molto tempo perché il censore responsabile della concessione dell’autorizzazione,
ossia il Maestro del Sacro Palazzo di Roma Niccolò Riccardi, pone molte
condizioni e poi affida il manoscritto a un altro revisore che incarica di
seguire le sue istruzioni. Del titolo che voleva inizialmente dare Galileo e di
quello definitivo e completo ho già detto in precedenza, ora è importante
cercare di comprendere perché la pubblicazione dell’opera, autorizzata con
tutte le cautele suggerite dalla prudenza dopo quasi due anni, suscita reazioni
così ostili e porta a conseguenze tanto drastiche e più gravi di quelle che si
sarebbero avute all’epoca del complotto di Ludovico delle Colombe e della Lega
dei suoi sodali.
La maggioranza dei biografi e degli storici che si
sono occupati di questi anni della vita di Galileo ha focalizzato l’attenzione sulle
ragioni politiche che possono aver fatto mutare l’atteggiamento del Papa
Barberini, che da suo entusiasta estimatore, e già tanti anni prima sincero
ammiratore, diventa il principale accusatore. Tutte le ragioni addotte dagli
studiosi appaiono più che fondate, e sicuramente avranno avuto una parte non
secondaria nel motivare una presa di posizione politica. Ma qui si tratta di un
mutamento di atteggiamento personale: dalla cordialità amicale di otto anni
prima, quando il Barberini suggerisce a Galileo confidenzialmente il modo per
sfuggire ai rigori dell’Inquisizione, si passa all’avversione da estraneo che considera
l’astronomo come un nemico.
Un cambiamento così radicale senza motivo non è
compatibile con la personalità del pontefice che emerge dai racconti biografici
dei contemporanei. E quindi è ragionevole cercarne il motivo nel testo del Dialogo.
Mi sembra opportuno un confronto con i contenuti dell’ultimo saggio, quello che
aveva indotto Urbano VIII a scrivere una lettera di elogio dello scopritore dei
satelliti di Giove al Granduca di Toscana.
Per aver presente il Galileo del Saggiatore è
utile riprendere l’efficace sintesi di Enrico Bellone: “Non mi si può certo rimproverare,
sostiene Galileo, se il mio desiderio di verità mi assilla. In fin dei conti,
proprio per merito della divina sapienza della Chiesa, sappiamo che la descrizione
copernicana del mondo è falsa. E, d’altra parte, il modello tolemaico non è
ormai sostenibile. Che fare, allora, quando ci accorgiamo che, malgrado le poesie
della Libra, anche l’ipotesi geocentrica di Tycho non spiega i fenomeni?”[27].
Dunque, nel Saggiatore, per rispettare l’ingiunzione anti-copernicana
del 1616, dice che la descrizione
copernicana del mondo è falsa.
Il Dialogo, scritto in italiano per il fine
dichiarato della diffusione al maggior numero di persone possibile, è costruito
come processo dialogico-dialettico di apologia copernicana, con una
perfetta dimostrazione che le tesi a sostegno dell’immobilità della Terra sono
invalidate dalla logica impiegata sulla base della conoscenza fisica. E la
premessa che la teoria descritta dall’autore è una “fantasia ingegnosa”
condotta “in pura ipotesi matematica” suona come divertentemente paradossale
nel perfetto stile della satira canzonatoria, non meno della conclusione in cui
Simplicio, a proposito della teoria galileiana delle maree, dopo averla
dichiarata più ingegnosa di quante abbia mai sentito, si affretta a dire che
non può essere vera perché in contrasto con una “saldissima dottrina, che già
da persona dottissima ed eminentissima appresi”[28].
Si tratta di un vecchio artificio retorico in gran voga all’epoca, che
Shakespeare fa adottare a Marco Antonio nel celebre monologo pronunciato in
memoria di Cesare alla presenza dei suoi assassini, Bruto e Cassio, che hanno
imposto con la violenza la propria versione della realtà: Antonio ricorda il
rifiuto della corona di imperatore reiterato per tre volte da Cesare, ma subito
aggiunge che Bruto riteneva Cesare un ambizioso “e Bruto è un uomo d’onore”.
Ma non si tratta semplicemente di questo. Riflettendo
sul testo del Dialogo, mi è parso evidente cosa sia accaduto: il Papa ha
letto il saggio e, con evidente certezza, si è riconosciuto in Simplicio. Comprensibile
che si sia sentito messo alla berlina e sia andato su tutte le furie.
Nell’incontro del 1624, in camera caritatis, il Papa aveva confidato a Galileo di credere
che Dio sia in grado di produrre i fenomeni osservabili in un’infinità di
maniere diverse e, dunque, l’osservazione fenomenica per giungere alla conoscenza
vera delle cause sarebbe un’impresa vana. Ebbene, Simplicio afferma proprio
questo a commento della teoria galileiana delle maree.
E non bisogna sottovalutare la somiglianza di
Simplicio con l’interlocutore di Socrate nei dialoghi di Platone, ossia qualcuno
che afferma idee in apparenza ragionevoli ma che si rivelano sempre sbagliate.
In altri termini, uno che non fa una bella figura, perché è come la “spalla”
nel teatro, ossia un ruolo finalizzato ad evidenziare e rendere efficaci le
battute del protagonista.
In Simplicio, oltre a una figura dialogica impiegata anche
nel teatro di Shakespeare e nella narrativa che usa lo sviluppo di ragionamenti
nei dialoghi quale fulcro della trama[29],
si può riconoscere la rappresentazione della persona non abituata ad analizzare
le proprie convinzioni. Uno stile mentale che, in assenza di educazione alla
riflessione cosciente e ragionata, rivela una bias psicologica della
nostra cognizione: consideriamo giuste le nostre convinzioni
intuitive presuntivamente, senza averle mai sottoposte al vaglio cosciente
formulandole come proposizioni logiche. La tendenza automatica della mente non
cosciente diventa la regola nelle persone irriflessive, che solo quando sono
indotte ad esporre le proprie convinzioni a un interlocutore, e in tal modo a
portare alla coscienza la loro struttura concettuale, si rendono realmente
conto se siano o meno corrette.
Urbano VIII, come del resto Galileo e ogni altra
persona di quel tempo, non era a conoscenza di questa tendenza psicologica e,
dunque, non aveva strumenti per la razionalizzazione soggettiva e un’eventuale
condivisione comunicativa per lenire e attenuare la figura da idiota che ci
faceva lui, come Papa, e la Chiesa a lui soggetta.
Non è difficile inferire e dedurre cosa sia accaduto nella
mente di Galileo nella insolita condizione di serenità che aveva vissuto in
quel periodo, in cui era circondato da allievi e collaboratori fedeli e si era
potuto dedicare agli affetti familiari: ha deciso di abbandonare lo sforzo di
autocensura cosciente, se non nella cautela delle forme, e dire la verità.
Dirla alla sua maniera, secondo quel rigore di sostanza e quella vivacità satirica
della forma, proprie dello spirito fiorentino che aveva appreso dal padre, irriverente
membro della benemerita Camerata dei Bardi in osmosi con l’Accademia della
Crusca, e da lui esercitato fin da giovane con i versi di Contro il portar
la toga.
Considerando il contenuto del Dialogo, ci si
rende subito conto che non è un testo che affronta in termini matematici questioni
di astronomia astenendosi da considerazioni filosofiche, come voleva l’ingiunzione
del 1616, ma è propriamente un saggio filosofico basato su nozioni di fisica e
sull’uso della logica per fondare la nuova scienza degli astri e del cosmo, nata
dal riconoscimento del sistema eliocentrico copernicano e del movimento della Terra
come di tutti i pianeti.
Gli argomenti trattati nel Dialogo sono numerosi,
ma desidero soffermarmi sull’esperimento della torre, che occupa una parte considerevole
del saggio perché tradizionalmente ritenuto una regina probationum,
ossia una “prova regina” dell’immobilità della Terra.
L’esperimento consiste nell’osservare il comportamento
di un oggetto pesante, un grave, che cade dalla cima di un’alta torre: l’interpretazione
tradizionale vuole che durante il tempo che l’oggetto impiega nella caduta, se
la Terra gira, il suolo si è spostato e il punto di impatto sarà diverso da
quello normalmente previsto, che è al fondo di una retta tracciata dal punto di
partenza al suolo ed è esattamente perpendicolare alla retta orizzontale che giace
sul piano di base della torre. Se si compie l’esperimento in pratica si vede
che il grave cade al suolo lungo la linea retta esattamente nel punto
corrispondente a quello in cui era in alto, come ognuno intuitivamente
immagina, e dunque, secondo l’interpretazione aristotelica tradizionale,
dimostra che la Terra è ferma, non si muove.
Galileo attraverso il dialogo cerca di far capire l’errore
di interpretazione dell’esperimento: il grave, che nel dialogo è una
pietra, non cade per moto semplice o “naturale” come sostiene Aristotele, perché
è provvisto di un moto composto da due costituenti, il primo è il moto
orizzontale dovuto al movimento della Terra e posseduto anche dalla Torre, come
da tutto il resto intorno, e il secondo è il moto di caduta dovuto all’attrazione
di gravità.
Simplicio a questo punto protesta chiedendosi come è
possibile se “la veggo io muoversi rettamente e
perpendicolarmente? Questo è pure un negare il senso manifesto; e se non si deve
credere al senso, per quale altra porta si deve entrare a filosofare?”[30]
La difficoltà a immaginare moti composti con
componenti non evidenti mi riporta alla mente un episodio accaduto a San
Francisco. Una sera, con una amica e numerosi compagni di viaggio, decidemmo di
andare al locale panoramico in cima all’Hyatt Hotel, il cui pavimento è montato
su una piattaforma circolare rotante, che consente ai clienti seduti ai tavoli,
senza muoversi, di vedere tutta baia di San Francisco, letteralmente a 360 gradi.
Mentre ci avviavamo, a chi mi chiedeva quale fosse il
grado di accelerazione della piattaforma, spiegavo che avevo già visto l’Hyatt
di New York in cui il movimento era lento e il pavimento sembrava tutto
continuo, eccetto per il sottile solco circolare che delimitava la zona dei
tavoli, e che i camerieri erano abituati a scavalcare continuamente con vassoi
pieni, senza risentire del momento in cui un arto percepiva il movimento e l’altro
no, come quando si compie il primo passo per andare su una scala mobile, grazie
alla compensazione effettuata dal cervelletto. Ma, mentre entravamo in
ascensore, si avvicinò a noi una famigliola costituita da una coppia e un
bambino.
Ho avuto modo di sentire cosa si dicevano, superando l’ostacolo
di qualche forma slang e di idioma familiare. Il bambino chiedeva: “Se
il pavimento gira, si muovono anche i tavoli, i bicchieri, le bottiglie, tutto;
come fa la gente a bere e mangiare?”, e il padre: “Si muovono anche loro”, e il
bambino, ridendo: “Li inseguono? Come fanno?!”; la madre: “Ma no, si muovono
piano, molto lentamente! Ecco, siamo arrivati, guarda da te”. Il bambino non
poté trattenere un “Great!” di entusiasmo e disse pressappoco: “Sono come fermi,
ma tutto gira!”. Nel provare a figurarsi come fosse, il bambino aveva immaginato
il movimento dei singoli oggetti, non considerando che la rotazione della
piattaforma interessava allo stesso modo tutto ciò che vi era sopra.
Ed è all’incirca ciò che cerca di far capire Salviati
a Simplicio circa il movimento della Terra nell’esperimento della torre: “Rispetto
alla Terra, alla torre e a noi, che tutti di conserva ci muoviamo col moto
diurno, insieme con la pietra, il moto diurno è come se non fusse,
resta insensibile, resta impercettibile, è senza azione alcuna, e solo ci resta
osservabile quel moto del quale noi manchiamo, che è il venire a basso lambendo
la torre”[31].
Per cercare di far comprendere a Simplicio i moti
composti, i suoi interlocutori ricorrono all’esempio del moto delle palle di
cannone, riuscendo a farsi comprendere; tuttavia, come osserva Sagredo, il punto di caduta del proiettile rimane lo stesso
sia che la Terra si muova, sia che sia ferma. Dunque, se i moti composti
invalidano lo storico argomento dell’esperimento della torre per sostenere la
visione tolemaica col nostro pianeta fermo al centro del cosmo, non sono però elemento
utile per provare il movimento della Terra. A questo punto, Salviati introduce
il tema dell’osservatore collocato su una nave che deve stabilire, per mezzo di
esperimenti di meccanica, quale sia lo stato di moto del natante. Così si
giunge alla seconda giornata del Dialogo, dedicata al tema della nave,
che consente di dimostrare che nessuno degli esperimenti classici può essere
decisivo per stabilire la fallacia della tesi copernicana, evidenziando la “nullità
di tutte le esperienze”.
La sostanza che si deduce dalle parole di Salviati in
questa parte del Dialogo è l’invarianza completa di tutte le leggi
della meccanica rispetto a osservatori situati in sistemi di riferimento in
quiete o in moto rettilineo uniforme. Questa argomentazione di
Galileo è oggi considerata come un enunciato di un principio di relatività
galileiano[32].
Salviati e Simplicio verso la fine della seconda giornata prendono in esame la
natura della gravitazione facendo emergere una tesi che Newton trasformò poi nella
chiave di volta della nuova fisica[33].
Senza soffermarmi ulteriormente sui contenuti del Dialogo,
che ne fanno un’opera di impareggiabile valore scientifico e un modello unico
per l’epoca di comunicazione dei concetti della scienza al di fuori della
cerchia degli studiosi, vengo all’epilogo della vicenda galileiana che ha
inizio con il sequestro disposto da Urbano VIII di tutte le copie esistenti del
Dialogo, e prosegue con i due interrogatori, il processo, la condanna con l’obbligo
alla lettura di un pubblico atto di abiura e l’inibizione attuata mediante una
sorta di “arresti domiciliari”.
Galileo Galilei aveva pagato caro il desiderio di
comunicare, insieme con ciò che aveva conosciuto e capito della realtà naturale,
con sincerità ciò che pensava dei limiti logici delle tesi e delle dottrine che
erano state protette col sigillo della sacralità per arbitrio secolare,
rendendole un tabù inviolabile, più del Logos, della parola stessa del
Signore, tradita quotidianamente col peccato e con la diffusione del suo
opposto, anche nella Chiesa, senza che nessuno fosse consegnato alla Sacra Congregazione
dell’Inquisizione per eresia.
Galileo, che era consapevole di aver violato il
decreto anti-copernicano del 1616, finse all’interrogatorio di non ricordarsene
e di non rammentare che gli era stato imposto di comunicare in caso di
pubblicazione ai revisori la sua precedente censura. La sua scelta coraggiosa
di smontare nel Dialogo proprio le tesi di compromesso, oltre quelle tradizionali,
attribuendole a Simplicio, è sicuramente un atto di rottura forte, deliberato,
consapevole.
Forse, come hanno ipotizzato alcuni, contava in un’evoluzione,
in una maturazione, in un cambiamento dei vertici della Chiesa; forse, come
hanno ipotizzato altri, era semplicemente stanco di “stare al gioco” e aveva
deciso di venir fuori con tutti i contenuti reali di conoscenza, facendo
affidamento sulla buona fama e sull’ormai estesa condivisione delle sue idee principali
nel mondo scientifico. Di fatto cercò, più che di difendersi dalle accuse di eresia,
di evitare pene troppo severe.
Anche la ragione della “cadente vecchiezza” di cui si
parla in molte biografie, inclusa quella di Enrico Bellone, non era
evidentemente una realtà, se si pensa, ad esempio, che Michelangelo Buonarroti
aveva vent’anni di più quando alacremente scolpiva la Pietà Rondanini e poi
fondava la prima accademia artistica della storia con Cosimo I.
Galileo era ammalato, non sappiamo di quali patologie,
anche perché il riferimento alla gotta non è affidabile, in quanto a quell’epoca
costituiva una categoria diagnostica molto generica e non indicava con precisione
il disturbo iperuricemico su base genetica rivelato
da eccesso alimentare di purine della nosografia contemporanea. Per certo
soffriva di una patologia oculare ingravescente e di qualche infermità motoria,
ma si può escludere un invecchiamento precoce da neurodegenerazione presenile, viste
le intese attività intellettuali documentate di quegli anni. Si presentò agli
inquisitori sofferente e malfermo sulle gambe, deambulando con l’aiuto di un
bastone.
L’atto di abiura letto in pubblico comincia così:
“Con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e
detesto li suddetti errori et heresie, e generalmente
ogni et qualunque altro errore, heresia e setta
contraria alla Santa Chiesa…”[34].
Concludendo, mi piace ricordare che ciò che divideva
in quel secolo Cartesio da Galileo è poi divenuto un principio di distinzione paradigmatica
a fondamento della scienza moderna: Cartesio riteneva indispensabile procedere
con ordine alla ricerca delle cause prime in natura, considerando
imperfetto il procedere galileiano, anche nel Dialogo; Galileo, di
fronte all’impossibilità di trovare le cause prime, prende le mosse dall’osservazione
dei fenomeni e si pone il fine della scoperta delle leggi di natura. In
tal modo, Cartesio ci ha lasciato il modello aureo dell’agire mentale
matematico e Galileo la chiave dell’approccio sperimentale.
Con questa ventiduesima parte mi congedo
temporaneamente dai miei lettori e ringrazio tutti per l’attenzione dedicata a
questi scritti.
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella
Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso
che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno
nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-13 novembre 2021
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La Società Nazionale
di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience,
è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] La denominazione ufficiale in
Spagna era Grande y Felicisima Armada
e indicava la flotta di 130 unità, che includeva 65 galeoni e 4 galere,
allestita da Filippo II per affrontare l’Inghilterra. Mi piace ricordare che il
superbo cromatismo del dipinto di Philippe-Jacques de Loutherbourg,
che due secoli dopo rappresenta la sconfitta dell’Invincibile Armata col
rosseggiare dei galeoni in fiamme contro il verdazzurro delle onde del mare, dà
inizio al genere pittorico delle battaglie navali.
[2] La prima opera lirica o melodrammatica
fu la Dafne di Peri cantata nel Palazzo Tornabuoni in Firenze (1598), seguita
da Euridice di Caccini, eseguita nel 1602; invece il primo teatro lirico,
concepito e progettato per l’amplificazione della voce, fu il Teatro di San Carlo
a Napoli. L’intento iniziale della Camerata era “suonare e cantare una storia
biografica” come facevano i Greci nella Tragedia, ma poi proseguirono creativamente.
Un esperimento di grande successo fu quello di far esibire i cantanti lirici con
estrema libertà, così che potessero improvvisare i virtuosismi preferiti col solo
supporto di un basso continuo. Uno schema simile a quello che ritroviamo negli “assolo”
di musica jazz dei nostri giorni.
[3]
La cerimonia inaugurale
ufficiale si tenne due anni dopo, il 25 marzo 1585, quando i soci si resero conto
che, al di là del piacere della parodia e delle beffe, si poteva fare un lavoro
unico e prezioso per i cultori della lingua e tutti i parlanti l’italiano.
[4] Foresto Niccolai, Bricciche
fiorentine – parte sesta (VI vol.), p. 30, Tipografia Coppini, Firenze 1999.
[5] Questa celebre citazione da un
testo del 1585 è ritenuta da alcuni (P. Rajna ripreso
da Alfredo Schiaffini nell’Enciclopedia Treccani) un adattamento, perché inizialmente
“Crusca” sarebbe stato riferito ai membri stessi dell’Accademia della Crusca che,
per satirica modestia, si definivano la cariosside di scarto della “farina” costituita
dagli accademici dell’Accademia fiorentina.
[6] Dal frontespizio: VOCABOLARIO DEGLI
ACCADEMICI DELLA CRUSCA – CON TRE INDICI DELLE VOCI, locuzioni e proverbi Latini e Greci,
posti per entro l’Opera. IN VENETIA – MDCXII. Appresso Giovanni Alberti.
[7] Una targa in marmo sulla facciata
ricorda l’impresa condotta dal 1590 al 1612.
[8] Nel 1636 il Cardinale Richelieu creò
l’Accademia francese sul modello dell’Accademia della Crusca.
[9] L’influenza italiana su letteratura
e lingua di oltremanica ha una storia che risale a Geoffrey Chaucer.
[10] In Spagna riuscirono a pubblicare
un anno prima, nel 1611, un “tesoro” della lingua, che tuttavia rimane più
simile alle raccolte di parole dei lessicografi dell’antica Grecia che a un vero
dizionario moderno come quello della Crusca. Un secolo dopo, nel 1713, l’Accademia
di Spagna dichiarò di voler seguire il Vocabolario della Crusca di Firenze (Foresto
Niccolai, op. cit., p. 30).
[11] Foresto Niccolai, Bricciche
Fiorentine (voll. I-VI), Vol. III (parte terza), p. 241, Tipografia
Coppini, Firenze 1997.
[12] Non si ha traccia di altre
ragioni che possano giustificare l’arresto.
[13] Foresto Niccolai, Bricciche
Fiorentine, op. cit., p. 242.
[14] Foresto Niccolai, Bricciche
Fiorentine, op. cit., idem.
[15] Il biasimo del Papa ebbe un
effetto inibitorio sugli Otto e ridimensionò molto Benedetto Buondelmonti, che si
vedeva censurare proprio dalla persona che lui intendeva onorare con quella
ingiusta sentenza. I Buondelmonti erano debitori dei Medici, che avevano
consentito loro di costruire il principesco Palazzo Buondelmonti, che oggi ammiriamo
in Piazza Santa Trinita, e che avevano nominato Benedetto
membro del Consiglio dei Dodici incaricato di stendere una nuova costituzione.
Ma, ancora una volta, un membro della famiglia Medici condanna quelli della
propria parte se commettono ingiustizie o crimini.
[16] Cfr. Vincenzo Antinori (a cura di),
Archivio meteorologico centrale italiano nell’Istituto e Reale Museo di Fisica
e Storia Naturale di Firenze. Tipografia sulle Logge del Grano, in Firenze
1858 (consultabile presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze).
[17] Il barometro, che tecnicamente
è un manometro differenziale che ha per misura di riferimento il vuoto assoluto,
era stato realizzato in precedenza (1641) in una versione ad acqua da Giovanni
Battista Baliani. Aneddotico e non documentato l’impiego di uno strumento in funzione
di barometro da parte dei Pilgrim Fathers
nella navigazione dall’Inghilterra all’America. Il barometro di Torricelli (1643),
specificamente realizzato per misurare la pressione atmosferica e illustrato tecnicamente
nella sua sperimentazione con il mercurio quale fluido incomprimibile la cui pressione
è calcolata dalla sua densità seguendo la legge di Stevino,
è impropriamente detto “barometro di Goethe” perché il celebre scrittore ne
possedeva un esemplare.
[18] Era detto Cennino o Cennini.
Da non confondersi con Cennino Cennini, pittore e autore di un trattato di
pittura.
[19] Cfr. Foresto Niccolai, Bricciche
Fiorentine (voll. I-VI), Vol. III (parte terza), p. 215, Tipografia
Coppini, Firenze 1997.
[20] Cfr. Foresto Niccolai, Bricciche
Fiorentine (voll. I-VI), Vol. III, op. cit., p. 215.
[21] Nello stile editoriale fiorentino
dei saggi del Seicento, dopo la copertina si incontrava una pagina che
precedeva il frontespizio, detta antiporta, che presentava l’opera ed
era firmata da artisti incisori.
[22] Si veda il paragrafo 35 della diciassettesima
parte di Specchio della Psiche e della Civiltà pubblicata nelle “Note e Notizie”
il 9 di ottobre 2021.
[23] Giovan Battista Landini lo
pubblica a Firenze nel 1632, con l’antiporta di Stefano della Bella; nel 1635 a
Strasburgo Bonaventura Elzevier e Abraham Elzevier danno alle stampe un’edizione internazionale.
[24] I nomi di Salviati e Sagredo erano presi a prestito da due persone reali, che
erano state vicine a Galileo occupandosi di questioni filosofiche e
scientifiche; Simplicio rappresenta un semplice che non ha sviluppato tesi
attraverso studi e ragionamenti, ma che segue per conformismo le opinioni della
maggioranza, ispirate alla difesa conservatrice del pensiero tradizionale.
[25] Da non confondersi con le altre
due dimore fiorentine, la “Casa di Galileo Galilei” sulla strada detta Costa
San Giorgio, che si raggiunge a piedi dalla chiesa di Santa Felicita, passando
per la “Casa di Santa Caterina” (Costa Santa Caterina), e la Villa di Bellosguardo
sull’omonima collina panoramica a sud-ovest di Firenze.
[26] Enrico Bellone, Galileo: le opere
e i giorni di una mente inquieta – Il grande libro, p. 84, Le Scienze, Milano
2000.
[27] Enrico Bellone, op. cit., p. 82.
[28] Galileo Galilei, Dialogo dei
massimi sistemi (a cura di Ferdinando Flora), Oscar Mondadori, Milano 1996;
cit. in E. Bellone, op. cit., p. 87.
[29] Tipicamente nei romanzi
polizieschi. Il “Simplicio” di Sherlock Holmes è il fedele dottor Watson, al
quale l’investigatore rivolge l’impietoso: “Elementare, Watson!”, mentre nel
caso del personaggio creato da Agatha Christie, Poirot, il ruolo spetta al
collaboratore Hastings.
[30] Galileo Galilei, Dialogo dei
massimi sistemi (a cura di Ferdinando Flora), Oscar Mondadori, Milano 1996;
cit. in E. Bellone, op. cit., p. 89.
[31] Galileo Galilei, Dialogo dei
massimi sistemi, op. cit.; cit. in E. Bellone, op. cit., pp. 89-90.
[32] Cfr. E. Bellone, op. cit., p. 91.
[33] Cfr. E. Bellone, op. cit., p. 94.
Isaac Newton trova in Galileo le basi per costruire la teoria matematica del
moto.
[34] E. Bellone, op. cit., p. 97.